“Fenomeno che cambia nei decenni. E le calciatrici azzurre per conquistare gli italiani hanno bisogno di risultati”
“Negli anni Trenta c’erano le ‘tifosine’, poi le donne sono quasi sparite dagli stadi del Dopoguerra, per tornare negli anni Settanta e Ottanta. Quello del tifo calcistico femminile è un fenomeno tutt’altro che lineare. Anzi, ha vissuto alti e bassi, nel corso dei decenni”. Le donne del calcio, le tifose del pallone, dai primi del Novecento ad oggi. Pochi studiosi in Italia hanno affrontato questi temi con la meticolosità di Marco Giani, storico e insegnante, che negli ultimi anni si è dedicato allo sviluppo dello sport femminile italiano, soprattutto durante il Ventennio fascista. Giani, nato quarant’anni fa a Gallarate (Varese), ha anche studiato a lungo il calcio femminile contemporaneo, pubblicando nel 2023 Capitane coraggiose. Sara Gama e Megan Rapinoe, due leader a confronto (editore Ultra Sport) e prima ancora aveva arricchito con un saggio il fortunato libro Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il Duce (Solferino editore), scritto nel 2020 dalla giornalista del Corriere della Sera Federica Seneghini. Giani è anche membro della Società Italiana di Storia dello Sport, dopo aver dedicato anni alla ricostruzione della storia del Gruppo Femminile Calcistico di Milano, la prima squadra femminile del nostro Paese. E sul calcio femminile, che dopo un improvviso boom sembra vivere un nuovo periodo di scarsa visibilità mediatica, lo studioso ritiene che servano “solo i risultati, come sta succedendo con il fenomeno Sinner e il tennis, poi la gente si appassiona più facilmente”, garantisce Giani.
𝐃𝐚𝐢 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐢 𝐠𝐫𝐮𝐩𝐩𝐢 𝐝𝐢 𝐭𝐢𝐟𝐨𝐬𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐭𝐚𝐝𝐢𝐨 𝐚𝐝 𝐨𝐠𝐠𝐢, 𝐜𝐨𝐦’è 𝐜𝐚𝐦𝐛𝐢𝐚𝐭𝐚 𝐥𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞𝐜𝐢𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐟𝐞𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐥𝐞 𝐧𝐞𝐠𝐥𝐢 𝐬𝐭𝐚𝐝𝐢?
“Mi sono occupato del fenomeno durante l’epoca fascista e negli anni Trenta. Negli anni Venti e nella fase che ha preceduto la Prima guerra mondiale, le donne allo stadio erano totalmente assenti. Se ne trovava qualcuna in tribuna d’onore accanto al marito, ma erano presenze sparute. La novità è che negli anni Trenta iniziano a emergere delle ragazze, giovani e non sposate, che vennero chiamate “tifosine”, un appellativo che però non è da intendere in senso dispregiativo. La maggior parte di loro iniziano a frequentare lo stadio in maniera autonoma rispetto alle figure maschili della famiglia. Ci vanno con le amiche, qualcuna ‘osa’ andarci anche da sola. Frequentano i settori popolari dello stadio. In quel periodo, il calcio inizia a diventare uno sport popolare anche se non aveva ancora superato il ciclismo, che fino agli anni Cinquanta rimarrà lo sport più seguito dagli italiani, ma piano piano il pallone conquista le masse. Gli idoli di queste ragazze, conquistate dal calcio, sono i grandi campioni dell’epoca, come Giuseppe Meazza. Il calcio veniva da loro seguito attraverso le riviste, le interviste, la radio”.
𝐐𝐮𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐭𝐢𝐟𝐨 𝐟𝐞𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐥𝐞 è 𝐮𝐧 𝐟𝐞𝐧𝐨𝐦𝐞𝐧𝐨 𝐨𝐦𝐨𝐠𝐞𝐧𝐞𝐨 𝐨 𝐬𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐜𝐞𝐧𝐭𝐫𝐚 𝐢𝐧 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐢𝐜𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐧 𝐚𝐥𝐜𝐮𝐧𝐞 𝐫𝐞𝐚𝐥𝐭à?
“Le prime ragazze presenti allo stadio le ritroviamo soprattutto nelle grandi città, in particolare al Nord, a Milano, Torino, Bologna, Trieste, ma qualcosa si riscontra anche più a Sud, a Roma e Napoli. Se andiamo a guardare all’estrazione sociale di queste ragazze, erano impiegate, studentesse, maestre, sarte. In sostanza, praticavano lavori che davano una certa autonomia rispetto alle contadine e alle massaie. Sono donne abituate a cercare svago e divertimento nel weekend, che può essere il cinema come lo stadio, che sanno spostarsi. Sono ragazze moderne, giovani, tra i 15 e i 20 anni. Questa tifoseria nasce quindi come un segno della modernità, anche un po’ di un’autonomia. Queste ragazze entrano però negli spazi prerogativa dei maschi. Lo capiamo da alcune testimonianze di quegli anni: vengono in qualche modo prese in giro, in maniera bonaria, ma imparano anche a rispondere. E sgomitando si guadagnano il posto nello stadio”.
𝐃𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐚𝐥𝐜𝐢𝐨 𝐞 𝐝𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐭𝐢𝐩𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐚 𝐝𝐢 𝐭𝐢𝐟𝐨 𝐩𝐚𝐫𝐥𝐢𝐚𝐦𝐨?
“Negli anni Trenta, in città come Bologna, Torino, Milano, lo sport diventava quello che oggi potremmo definire un divertimento di massa. E il regime fascista non aveva alcun motivo per ostacolare l’accesso delle donne. In quel periodo, anche grazie alla Nazionale che conquista due Mondiali, il calcio era uno strumento di ‘distrazione di massa’. Al regime andava bene che i maschi andassero ad affollare gli stadi, anziché fare altro. Per queste ragazze, invece, andare allo stadio era come andare al cinema, come leggere i rotocalchi, una pratica di modernità. Chiedevano l’autografo al calciatore come avrebbero fatto con un attore. Era anche qualcosa di generazionale: erano soprattutto le ragazze a farlo, era rarissimo che lo facessero le signore. Il tifo rappresentava qualcosa di moderno”.
𝐏𝐨𝐬𝐬𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐩𝐚𝐫𝐥𝐚𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐚𝐥𝐭𝐢 𝐞 𝐛𝐚𝐬𝐬𝐢?
“La differenza tra gli anni Trenta e quello che accade dopo è che quelle donne riuscivano a farsi accettare, non erano particolarmente osteggiate dagli altri. Nessuno le mandava via. Erano poche, non parliamo di grandi numeri, ma rappresentavano un simbolo della modernità. Alla fine degli anni Trenta ci fu persino un tentativo, penso all’Ambrosiana Inter con il presidente Ferdinando Pozzani, da parte delle società di offrire dei biglietti scontati per le donne. In concomitanza di queste iniziative, sui giornali vengono pubblicate lettere di ragazze che esprimono soddisfazione per questa considerazione nei loro confronti. Negli anni Trenta, una serie di industriali (Pozzani a Milano, Sacerdoti a Roma) entrano nel calcio. La FIGC glielo permette senza problemi, perché portano soldi per il calciomercato, le grandi squadre iniziano a comprare i campioni che fino ad allora giocavano in provincia. E in quel contesto si forma un gruppo sparuto di tifose, a Bologna, che possiamo definire delle pioniere. Questo fenomeno si arresta con la guerra e paradossalmente anche nel Dopoguerra, nell’Italia democratica e democristiana e del PCI di Togliatti, a livello di costumi si fanno molti passi indietro. Negli anni Cinquanta, queste presenze femminili si diradano, arriviamo alla famosa canzone di Rita Pavone, che prega di essere portata alla ‘partita di pallone’. Negli anni Sessanta e Settanta, sulla scia delle rivendicazioni femministe e della nascita del movimento ultras, le donne cercano il loro spazio sugli spalti”.
𝐂’è 𝐮𝐧𝐚 𝐥𝐞𝐭𝐭𝐞𝐫𝐚𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐬𝐩𝐞𝐜𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚?
“Una testimonianza significativa arriva dal romanzo di Donatella Evangelista, “Tifosa e basta: c’era una volta?”, un libro del 2008 pubblicato da Sedizioni. Il libro è rimasto purtroppo nel cassetto per anni, perché le case editrici rifiutavano la pubblicazione. Poi lo storico dello sport, Sergio Giuntini, grande tifoso milanista, ne ha riconosciuto il valore e ha insistito per la pubblicazione. Evangelista racconta la sua prima volta a San Siro con il padre, anch’egli tifoso rossonero, nel 1969, e l’ultima, nel 1972, segnale dell’avvenuta indipendenza di una ragazza ormai capace di andare allo stadio con gli amici. È una testimonianza delle donne allo stadio, racconta la passione del babbo, rimasta intatta. E parla della mamma, donna indifferente se non addirittura seccata dal calcio. E soprattutto, racconta l’incontro con Ketty, “la prima femmina nella mia vita che provava la passione per il calcio e l’amore per il Milan”. Merita di essere citata anche la testimonianza di una tifosa del Bologna, Gabriella Amaniera Leonetti, che ha seguito la squadra nel 1964, quando i rossoblù hanno vinto lo scudetto contro l’Inter, nell’unica occasione in cui il titolo è stato assegnato in uno spareggio. Da questi racconti, pubblicati nel 1967 sulla rivista culturale di sinistra “Che fare. Bollettino di critica e azione d’avanguardia”, si evince che a metà degli anni Sessanta le donne stavano ricominciando ad andare allo stadio. Questa tifosa era lei stessa una femminista. In quella fase, le donne vedevano l’andare in curva come un diritto per cui combattere. Non c’è nessun tipo di continuità con gli anni Trenta. Come detto, il fenomeno del tifo femminile non è mai stato lineare. È sempre stato costituito da stop and go, arresti e riprese, esperimenti sfumati per poi ricominciare da capo. Senza alcuna continuità storica. Per questo, i primi gruppi organizzati di tifose degli anni Settanta non hanno alcun collegamento con gli avvenimenti degli anni Trenta, quando c’erano gruppetti di amiche e non tifo organizzato. Era collegato a un fenomeno sociale di quell’Italia lì, che poi sparisce e poi riemerge. Ma quando riappare, sono gli anni Settanta e la società è già diventata un’altra”.
𝐏𝐨𝐢 𝐜’è 𝐢𝐥 𝐜𝐚𝐥𝐜𝐢𝐨 𝐟𝐞𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐥𝐞, 𝐮𝐧 𝐟𝐞𝐧𝐨𝐦𝐞𝐧𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐞𝐦𝐛𝐫𝐚 𝐭𝐨𝐫𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐧𝐞𝐥𝐥’𝐨𝐦𝐛𝐫𝐚. È 𝐝𝐚𝐯𝐯𝐞𝐫𝐨 𝐜𝐨𝐬ì?
“Come ho scritto nel libro “Capitane Coraggiose”, il Mondiale del 2019 è stato un punto di non ritorno per tutto il movimento femminile italiano. Dal ‘99 era iniziato un declino, nel momento in cui, invece, in tutta Europa il calcio femminile viveva una fase di forte sviluppo. L’Italia, però, era in ritardo. Il 2019 è importante, perché anche i mass media hanno intuito che c’era un prodotto commerciale da vendere e hanno fatto una scommessa. D’altra parte, la nazionale nella gran parte delle previsioni non era destinata a superare la fase a gironi, mentre invece poi è arrivata ai quarti di finale”.
𝐐𝐮𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐢𝐥 𝐬𝐞𝐠𝐮𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐜𝐚𝐥𝐜𝐢𝐨 𝐝𝐨𝐧𝐧𝐞 𝐩𝐮ò 𝐝𝐢𝐩𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐫𝐢𝐝𝐨𝐭𝐭𝐚 𝐜𝐨𝐩𝐞𝐫𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐦𝐞𝐝𝐢𝐚𝐭𝐢𝐜𝐚?
“I media hanno sicuramente un ruolo e possono spingere in alto una certa disciplina, ma ovviamente c’è bisogno che succeda qualcosa in campo, come vediamo negli ultimi tempi con il tennista Jannik Sinner: se arrivano le vittorie, la gente si appassiona. La squadra femminile è riuscita ad ottenere un bel risultato sportivo, creando una reazione positiva. Era una squadra composta da compagne che si aiutavano, puntava sul collettivo, mentre i ragazzi avevano mostrato molti atteggiamenti individualisti, una squadra irrispettosa dell’arbitro. Persino il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva lodato le calciatrici azzurre, definendole le ‘vincitrici morali del Mondiale’. Il 2019 ha rappresentato la ricetta perfetta, la squadra si è presentata ai media con la narrazione perfetta. Prima e dopo il 2019 sono successe altre cose: nel 2017 le società maschili hanno iniziato ad avere una ‘versione femminile’, acquisendo il titolo dalle squadre storiche femminili. Dopo il mondiale, si è arrivato al professionismo in Serie A. Dal punto di vista degli investimenti economici, non si è più tornato indietro. E c’è stata una maggiore tutela giuridica. Nel frattempo, però, è venuta a mancare la coincidenza con i risultati. Lo scorso anno abbiamo assistito ad un vero disastro e hanno dilapidato l’onda lunga del 2019.
Pensiamo a Francia-Italia dell’Europeo, giocata a luglio 2022, trasmessa in prima serata sulla Rai, con le azzurre che prendono 5 gol nel primo tempo… diciamo che sentono il peso, non solo della loro carriera, ma di tutto un movimento”.
Rosita Mercatante per Tifosa Giallorossa